La fondazione del partito Radicale

di Redazione

La fondazione del partito Radicale

| lunedì 11 Dic 2017 - 00:32

1955 – 32 consiglieri dissidenti del Partito Liberale Italiano, tra i quali figurano Marco Pannella, Leo Valiani ed Eugenio Scalfari, tengono un comizio a Roma per illustrare il programma del nuovo Partito Radicale.

Fondazione del partito Radicale

Mentre all’E.U.R. si svolgevano i lavori del VII congresso del PLI e si parlava della secessione di “Villabruna” e degli “altri liberali di sinistra”, questi, riuniti a Roma, al “Palazzo Bancani”, situato in Piazza Teatro di Pompeo, “fondavano il P.R.L.D.I.”, ossia il “Partito Radicale dei Liberali e Democratici Italiani”.

1) Dimissioni della sinistra liberale dal P.L.I.

Prima di giungere a questo passo, in base a quanto avevano deciso ai convegni di Torino (1), e di Firenze (2), essi avevano cercato di addivenire ad una composizione amichevole, proponendo alle correnti di centro e di destra, il “rinvio del Congresso” e la costituzione di un “comitato paritetico di reggenza del Partito”, investito di tutti i poteri direttivi.

Naturalmente, l’on. “Malagodi”, forte dei successi della sua corrente nei precongressi provinciali, “respinse decisamente questa proposta”. Di fronte a questo rifiuto, l’on. Villabruna cercò di indurre il Ministro Martino a fare opera di mediazione e di persuasione presso il segretario del PLI, ma “anche questo tentativo rimase senza risultati” (3). In tale situazione ai liberali di sinistra non restava che attuare quanto avevano deciso nei convegni precedenti e dare vita ad una nuova formazione politica.

Il “primo atto” compiuto in tale senso furono le “dimissioni dal Partito”, date, quasi contemporaneamente, il giorno 8 dicembre dal “vicepresidente Arangio Ruiz”, da “31 Consiglieri nazionali” e da “altri autorevoli esponenti del PLI” (4).

Particolarmente importante è il “documento di dimissioni collettive”, sottoscritto e presentato dai 31 Consiglieri nazionali, perché contiene i motivi che hanno spinto i firmatari ad abbandonare il PLI e a tentare la costituzione di un nuovo Partito. Ne riportiamo “i tratti essenziali” (5).

“Dall’abbandono incondizionato del” Ministero della P.I. “all’approvazione delle norme illiberali ed anticostituzionali sui” Tribunali militari, “il PLI ha rinnegato appieno la sua fondamentale vocazione di custode delle istituzioni dello Stato liberale moderno. Il Partito stesso è stato definitivamente assoggettato alla volontà di potenti” gruppi monopolistici “e la sua politica si è avvilita nella consapevole ed aperta difesa di” interessi particolari e di ristrette categorie.

“Così, non solo si attuava la mortificazione dell’idea liberale e la disgregazione del Partito, ma anche lo scadimento di tutto lo schieramento democratico, si spezzava sostanzialmente la solidarietà dei partiti laici, si sabotava all’interno la politica di centro-sinistra, si distruggeva la possibilità di una costruttiva politica di giustizia democratica, capace di fronteggiare l’impeto degli estremisti.

“Il Partito si è trasformato in uno” strumento obbediente ad una ristretta oligarchia, “in un mero apparato padronale. La stessa” preparazione del congresso “si è svolta sotto il segno di una grossolana alterazione delle basi delle rappresentanze.

“Il PLI non può più offrire, dunque, ospitalità a coloro che fanno consistere la moralità politica nella intransigente tutela degli interessi generali, nella difesa appassionata delle” libertà politiche e sociali. “L’anima del liberalismo, il suo spirito aperto e riformatore, si troverà d’ora innanzi fuori di un partito che di liberale conserva solo l’etichetta”.

2) Nome del nuovo Partito

All’indomani del loro distacco ufficiale del PLI, i 31 consiglieri dimissionari, integrati dai rappresentanti di base (5 bis) (in tutto un centinaio di persone), riuniti al Palazzo Bancani, tennero il “convegno costitutivo del nuovo Partito”, nel quale Leone Cattani illustrò le ragioni per cui era stata decisa la formazione di un partito a larga base, che raccogliesse liberali e democratici, e facesse sentire una valida presenza democratica tra i grossi raggruppamenti democristiano e socialcomunista (6).

Si discusse a lungo sul “nome”, sul “programma” e sull‘“attività organizzativa” del nuovo Partito.

Quanto al “nome”, tutti convennero sulla “denominazione sostanziale” di “radicale”, ma a parecchi parve che tale aggettivo non indicasse sufficientemente che il nuovo partito rimaneva fedele agli ideali liberali e democratici e postulava, nello stesso tempo, un allargamento del raggio d’azione del liberalismo. Per questo si aggiunsero le altre determinazione, che, con l’uso, probabilmente cadranno e lasceranno sussistere la denominazione più breve dei “Partito Radicale” (7).

3) Programma del Partito Radicale.

Il programma del P.R. è chiaramente delineato nell‘“appello” lanciato al Paese dai fondatori del Partito alla fine del convegno romano.

Il documento comincia con la “dichiarazione” che “la condizione della vita politica italiana, a 10 anni dalla Liberazione, riempie di scontento e d’inquietudine la coscienza liberale e democratica”, perché “al crollo della dittatura è succeduta una democrazia debole nel difendere dal confessionalismo e dagli estremisti l’autorità dello Stato, e incapace di realizzare lo spirito della Costituzione”, donde la necessità di creare “una nuova politica, capace di ridare vigore e speranza allo sviluppo della società italiana” (8).

I “punti programmatici del nuovo Partito” (che i Radicali si propongono di “affrontare ed avviare a soluzione in 4 o 5 anni”) sono i seguenti (9):

a) Lotta ai privilegi e ai monopoli economici.

Il P.R. si propone di lottare contro i “privilegi” e contro i “monopoli” industriali, commerciali e terrieri, per spezzarne il prepotere politico e permettere così lo sviluppo di un’economia veramente libera.

b) Riduzione dei dislivelli esistenti fra i cittadini, le classi sociali e le Regioni.

L’attività dei singoli non deve essere ostacolata dalla prepotenza dei gruppi organizzati e i “punti di partenza” dei “cittadini” devono essere resi il più possibile uguali, riducendo a mano a mano i dislivelli tra i vari “ceti” e le varie “regioni” del Paese.

c) Riordinamento tributario e controllo della pubblica spesa.

E’ compito dello Stato democratico, non solo di eliminare gli sperperi e di sottoporre tutte le “pubbliche spese” all’effettivo “controllo del Parlamento”, ma di riformare radicalmente l‘“ordinamento tributario”, rendendo le imposte chiare e certe, accentuando il loro “carattere progressivo”, alleviando gli oneri dei ceti meno agiati, riordinando ed ampliando il settore delle imposte dirette.

d) Organico intervento dello Stato nella vita economica.

Lo stato ha il diritto e il dovere di “intervenire organicamente e permanentemente”, nella vita economica e sociale, non solo a tutela delle categorie indifese, ma anche per inserire nella vita democratica quei ceti popolari che sono ancora fuori di essa, e sono perciò esposti a soggiacere, o soggiacciono, al richiamo e al disciplinamento degli apparati illiberali.

e) Riforma scolastica e primato della scuola statale.

La riforma scolastica deve eliminare gli eccessi dell‘“umanesimo”, sviluppare l’insegnamento tecnico e scientifico, mettere fine all‘“indolenza del confessionalismo” e restituire “dignità e primato alla scuola dello Stato”.

4) Attività organizzativa del P.R.

“Il convegno del P.R.”, dopo aver approvato il manifesto programmatico, anziché nominare, come era stato annunciato in un primo tempo, un comitato promotore di circa 80 persone, presieduto da una Giunta esecutiva di 7-8 membri e da un Presidente (si faceva il nome di Arangio Ruiz o Messineo) (10), “elesse un triunvirato”, composto da Villabruna, Carandini e Pannunzio, col compito di dare una prima struttura organizzativa al Partito, di occuparsi della sua propaganda e di avviare e portare a termine le trattative per la costituzione di un “cartello” fra tutte le forze politiche laiche”, ossia fra il PRI, il Partito Sardo d’Azione, il movimento “Comunità” di Olivetti e quello di “Unità Popolare” (11).

L’11 dicembre, al teatro Cola di Rienzo, il nuovo Partito tenne il suo “primo comizio”, nel quale presero la parola Villabruna, Cattani, Paggi e Carandini.

Davanti ad un pubblico abbastanza numeroso (circa 2500 persone), Villabruna espose le ragioni dell’uscita dal PLI; Cattani illustrò la necessità di unirsi per opporsi al “clerico-fascismo”, e al “clerico-sinistrismo”; Paggi disse che era tempo che i democratici laici difendessero apertamente i loro ideali, come facevano i cattolici e i comunisti: ideali che consistono “nell’inserimento dei lavoratori nello Stato, nel rinvigorimento della scuola statale e nell’attuazione delle norme costituzionali”; Carandini affermò che il P.R. apriva una fase di chiarificazione non solo nel PLI, ma in tutte le forze democratiche, mediante la costituzione di un “cartello della democrazia laica”, che fosse l’elemento moderno rinnovatore della società italiana, conciliando liberalismo e democrazia sociale in un’azione perseverante e costruttiva (12).

Dopo il convegno, il Comitato esecutivo provvisorio intraprese quel “lavoro di avvicinamento e di scambio d’idee” che dovrebbe portare alla costituzione del “cartello delle forze laiche”: “lavoro molto importante”, oltre che complesso, lento e delicato, perché, come osserva Salvatorelli, “nessuna efficace azione politica può compiersi oggi senza una larga ed accurata seminagione iniziale, capace di procurare all’azione medesima una direttiva ben precisa ed una base popolare ampia e sicura” (13).

Così, il “22 dicembre” ebbe luogo a Roma il “primo incontro” degli esponenti del PRI, del Partito sardo d’azione e del movimento “Comunità”. All’appuntamento mancò la rappresentanza del gruppo “Unità Popolare”, perché questo gruppo gravita intorno al PSI ed è decisamente contrario al quadripartito, mentre i Radicali, non sarebbero, per il momento, contrari all’attuale coalizione governativa (14).

A proposito dell‘“incontro romano” è interessante il “chiarimento di posizioni” che è apparso sull’organo del movimento “Comunità” ed è dovuto probabilmente all’ing. Adriano Olivetti. Da esso, tra l’altro, si lamenta “la partecipazione con cui la sinistra liberale si è costituita in partito, il nome che ha preso, la polemica accentuazione laicistica su cui sembra voler imperniare il significato maggiore della propria lotta” e si prospetta una “serie di problemi concreti” su cui avviare la discussione e raggiungere possibilmente un accordo (15).

Il Comitato esecutivo provvisorio del P.R. segue anche “i problemi politici correnti”, e recentemente (11 gennaio) ha preso posizione nella questione delle leggi elettorali, “pronunciandosi” contro gli apparentamenti, “condannati dalle recenti esperienze”, “denunciando” come “illiberale ed anticostituzionale” la norma che esclude dal riparto, in sede nazionale, le liste che non abbiano raggiunto 500.000 voti complessivi, e “chiedendo” che il Parlamento discuta al più presto i disegni di legge, da tempo giacenti, sulla limitazione della propaganda e delle spese elettorali (16).

5) Giudizi sulla nascita e sul programma del P.R.

“I giudizi sulla nascita e sul programma del P.R.” sono diversi, a seconda delle fonti da cui provengono e delle persone che li pronunciano.

Nettamente “favorevole” si è dichiarato fin da principio il “PRI”, il quale, in omaggio ai contatti già in corso per il costituendo “cartello delle forze laiche”, si è astenuto dall’inviare un suo rappresentante ufficiale all’inaugurazione del congresso del PLI (17).

L’on. “Nenni” ha visto nella scissione liberale un nuovo segno della crisi che travaglia il centro democratico: crisi, secondo lui, “positiva”, purché il nuovo partito dia il suo contributo al “diretto inserimento dei lavoratori nella gestione degli interessi della collettività” e alle “grandi riforme strutturali”, ed eviti gli “accenni polemici nei confronti dell’incontro tra le masse cattoliche e le masse socialiste” (18).

L’on. “Saragat”, nei confronti del P.R. si è mostrato “piuttosto perplesso” se non scettico, ed ha rifiutato la sua adesione al progettato “cartello laico”, esprimendo il timore che il P.R. rimanga in bilico “tra una tendenza frontista ed una rigorosamente democratica” (19). Quest‘“accusa di “frontismo” fu immediatamente “respinta” dai leaders radicali, come destituita di ogni fondamento (20).

“Mario Missiroli” considera la scissione dei liberali come una “conseguenza quasi inevitabile” della dottrina liberale, la quale “comprende in sé i due termini della dialettica della storia e della vita, della conservazione e del progresso”, e prevede che “le due parti “finiranno per ravvicinarsi”, di modo che “qualcuno si domanderà se era proprio necessario questo divorzio… e si dovrà concludere che se il divorzio non era necessario, non per questo sarà stato inutile, se avrà giovato a dimostrare, attraverso l’esperienza, che è il metodo stesso del liberalismo, la necessità di certe posizioni, imposte dalla teoria e dalla pratica di tutti i giorni” (21).

Secondo “Vittorio Gorresio” “sarebbe grave errore considerare la scissione del PLI come il segno di una semplice insofferenza tra uomini che militando nella stessa formazione politica, hanno finito per accorgersi dell’inconciliabilità delle concezioni che rispettivamente professavano”. “Le ragioni” – egli dice – sono “assai più profonde”, ed il significato, in un certo senso, è assai più lieto: non ci troviamo, infatti, di fronte ai soliti tediosi casi di personalismo, malattia pur frequente nella nostra vita politica, ma in cospetto di una situazione politica generale, che merita l’interesse più attento”.

Tale situazione, secondo Gorresio, sarebbe caratterizzata dalla “crisi sia delle destre” (PNM, PMP, MSI), “sia del centro-sinistra” (PRI e PSDI) che appaiono più in fase di declino o di stasi che di espansione: fase, che costituisce il terreno più adatto per la costituzione del “fronte popolare”.

“Per questo” – conclude Gorresio – “l’alternativa che offrono i fondatori del P.R., i quali aspirano ad un “cartello delle cosiddette forze laiche”, può essere l’ultima capace di salvare una larga parte dell’elettorato italiano dal livellamento di un fronte marxista. In questo senso il successo degli amici dell’On. Villabruna sarebbe apportatore di grandi benefici per il nostro Paese (22).

Sia le “previsioni di Missiroli” che gli “apprezzamenti di Gorresio” ci sembrano “alquanto ottimisti”, sebbene non si possa negare loro un fondo di verità o di probabilità.

CONCLUSIONE

Non possiamo finire queste cronache, senza richiamare l’attenzione dei nostri Lettori sulle ripetute “affermazioni di laicismo”, avutesi sia al congresso dei “Liberali” (23) che a quello dei “Radicali”. E’ vero: “per lo più” ci si è limitati a parlare di “autonomia dello Stato”, di “primato della scuola statale”, di “difesa dello Stato e della scuola dal confessionalismo”, ecc.; ma queste espressioni, alla luce della dottrina liberale e nel quadro concreto dell’attuale situazione politica italiana, sulle labbra dei discepoli di Cavour e di Croce e degli “Amici de “Il Mondo”“, non possono significare altro che quel vieto laicismo ottocentesco, il quale voleva che il potere e l’influsso della Chiesa fosse “estromesso dalla vita pubblica” e confinato entro le pareti del tempio e nell’ambito della vita individuale e privata.

Ora questa “posizione laicista”, dal punto di vista cattolico, è assolutamente “inaccettabile”: a) perché arbitrariamente generalizza pochi casi sporadici di sconfinamento di poteri, spesso molto discutibili e che, comunque, i cattolici sono i primi a deplorare; b) perché è “in aperto contrasto” con quei poteri, che competono alla Chiesa anche nella vita sociale, “in forza della missione” che le fu affidata dal suo Fondatore, non meno che in forza della “storia” e del “diritto”, sia naturale che positivo (Patti Lateranensi).

E’ superfluo rilevare che quest‘“atteggiamento d’incomprensione”, se non di ostilità, assunto dai partiti liberale e radicale nei confronti dei “diritti della Chiesa, dev’essere tenuto presente dai cattolici” (da tutti i “veri” cattolici), “nel momento delle loro scelte politiche”.

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