Domenica scorsa si sono spenti i riflettori sulla Biennale di Architettura di Venezia — Intelligens. Natural. Artificial. Collective. — che ha avuto un forte successo di pubblico affrontando il tema di una maggiore integrazione tra architettura e natura. Chiusi i grandi battenti dell’Arsenale, ho finalmente potuto tirare un respiro di sollievo e scartabellare tra le notizie di giornale trascurate nell’ultima settimana. Tra queste, una ha attirato la mia attenzione: quella che i media hanno soprannominato «la storia della famiglia nel bosco», una coppia anglo-australiana alla quale la magistratura ha sottratto i figli a causa delle condizioni di vita neo-rurali nei boschi vicino a Chieti, educazione fai-da-te inclusa.
Vorrei quindi raccontare la mia esperienza di ragazzino cresciuto «nel bosco» e spiegare perché oggi mi schiero dalla parte dei genitori. Ma iniziamo con una premessa. Non si tratta di una presa di posizione politica. Non si tratta nemmeno di una disquisizione letterario-filosofica, sebbene, vivendo in Massachusetts, sia stato più volte in pellegrinaggio a Concord dove sorge la «capanna» in cui Henry David Thoreau scrisse il suo bellissimo Walden, ovvero Vita nei boschi. Si tratta semplicemente di una riflessione personale.
