Nel 1917 il mondo era in frantumi. La Prima Guerra Mondiale continuava a divorare vite, anime, relazioni. Sul fronte si moriva senza sapere davvero perché. Non c’era gloria né bandiera che poteva giustificare la carne bruciata, il sangue freddo, i corpi allineati in trincea come bestie abbandonate. I confini si ridisegnavano nel sangue, ma lontano dal fronte, nei paesi rurali della Sardegna, la vita continuava – silenziosa, resistente, femminile.
Non è facile definire la Sardegna: antica, dura, luminosa, color di miele, sapore del sale. Una terra che non si lascia definire: ha montagne che sembrano scudi, paesi che si aggrappano alle rocce come nidi di rondini, una lingua che suona come un rito. Il tempo si piega come il grano sotto il maestrale. In quella terra antica e orgogliosa, la guerra non si vedeva, ma si sentiva. Nelle lettere mai arrivate. Nei figli che non tornavano. Nei mariti troppo cambiati per essere riconosciuti. Ed è lì, tra pietra e vento, che Bibbiana Cau ambienta il suo romanzo "La levatrice" (Nord).
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